Nella Genesi, Dio, dopo aver creato la terra, il cielo e il mare, e averli riempiti di esseri viventi, pone la sua principale creatura, quella a cui aveva infuso la vita in modo assolutamente singolare rispetto alle altre soffiandole nelle narici e facendola a propria immagine e somiglianza in un luogo speciale, in un giardino chiamato Eden dove crescevano l’albero della Vita e l’albero della Conoscenza del bene e del male. Di quest’ultimo, raccomanda Dio, l’uomo non doveva assolutamente mangiarne i frutti.
Spesso mi sono chiesto cosa potesse rappresentare l’albero della Conoscenza. Secondo il catechismo della Chiesa Cattolica, esso rappresenta la capacità di decidere cosa sia bene e male, possibilità che spetta solo a Dio. L’uomo deve adeguarsi all’infinita conoscenza e capacità di giudizio di Dio, il che significa rispettare la sua legge morale, non realizzarne una propria. In sostanza, non assurgere al ruolo di Dio ma rispettare le sue leggi. L’albero della Conoscenza del bene e del male rappresenterebbe quel limite che l’uomo non può valicare: la sua dipendenza e sottomissione alle leggi di Dio e alle norme morali che regolano la sua libertà (
Catechismo della Chiesa Cattolica, parte 2, cap. I, § 7).
Questa spiegazione non mi ha mai veramente soddisfatto. Non mi sembra molto aderente al racconto, alla situazione realmente descritta dalla Genesi e alla sua dinamica; non mi sembra coerente, soprattutto, con la dignità dell’uomo quale creatura similare a Dio (e non semplicemente sottomessa a lui e alle sue leggi) né con le conseguenze che il mangiare da quell’albero ebbe immediatamente, secondo le Scritture, sull’atteggiamento dell’Uomo e sul suo rapporto con il suo Creatore. Innanzitutto, il fatto che mangiando da quell’albero l’uomo avrebbe conosciuto cosa è il bene e cosa è il male non è un’idea che nel racconto proviene da Dio ma dal Serpente che, appunto, lo dice per convincere Eva a trasgredire una regola imposta dal Creatore. Dio, infatti, aveva solamente annunciato all’uomo che, qualora ne avesse mangiato, sicuramente ne sarebbe morto. Difatti, come prima e principale conseguenza della trasgressione, i due esseri umani non diventano affatto come Dio, conoscendo così improvvisamente ogni cosa, acquisendo cioè l’onniscienza, ma piuttosto «
si accorsero di essere nudi, intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gen 3, 1-7). Non quindi una maggiore conoscenza acquisì l’uomo da quel cibarsi, ma la consapevolezza della sua nudità, e che questa fosse cosa non buona, da celare dinnanzi a Dio. Così, dopo aver mangiato dall’albero della Conoscenza del bene e del male, l’uomo inizia a vivere in una condizione di separatezza da Dio, lo teme, prova vergogna per la propria nudità. Assaggiare quei frutti determinò non la sua onniscienza ma una trasformazione del suo modo di vedersi e di concepirsi in rapporto a sé stesso e al suo Creatore. A meno che non si intenda per onniscienza il fatto di riuscire a concepire la nudità come qualcosa di cui vergognarsi.
Ritengo piuttosto che la consapevolezza della nudità sia più un simbolo che nulla ha a che fare col fatto che nella nudità ci possa essere qualcosa di cui vergognarsi. La nudità potrebbe essere vista come una condizione primordiale di piena innocenza e di piena comunione e armonia dell’uomo con Dio e con sé stesso, condizione che viene infranta dal contatto con l’albero della Conoscenza. Una condizione nuova in cui un aspetto di sé, i genitali, viene giudicato negativamente rispetto a prima e si ritiene che anche Dio possa fare lo stesso. Ciò che va incontro a morte dopo il contatto con i frutti di quell’albero, quindi, non sarebbe l’uomo in sé nel concreto della sua corporeità, ma questa sua iniziale condizione di innocenza e di perfetta reciproca intesa tra lui e Dio, questa fiducia illimitata nel suo Creatore che gli permette di stare tranquillamente nudo dinnanzi a lui senza che di nulla debba vergognarsi, senza che nulla abbia da temere. C’è da notare, infatti, che Adamo oltre che vergogna inizia a provare anche paura; teme Dio, non c’è più fiducia nel rapporto con lui. In qualche modo lo percepisce distante, ostile. Egli si nasconde dopo aver mangiato il frutto dell’albero, ponendo subito una distanza tra sé e il suo Creatore, il quale, accorgendosi che la sua creatura non è più facilmente raggiungibile, gli chiede «
Dove sei?» (Gen 3, 9).
Penso che quello della cacciata dall’Eden possa intendersi come un mito che l’umanità ha utilizzato per darsi una spiegazione circa il perché dell’imperversare del male e del dolore sulla terra, nell’uomo e tra gli uomini, ipotizzando una condizione iniziale di perfetta sintonia con Dio incrinata ad un certo punto da qualcosa, da un avvenimento, che l’uomo (e l’esegesi canonica) finisce per attribuire alla sua debolezza dinnanzi alla tentazione e contemporaneamente al Tentatore, al male, visto come entità altra da sé ontologicamente esistente, proprio come Dio. Il problema centrale del racconto, dunque, è l’esistenza del male e il ruolo che in esso ha avuto e continua ad avere l’umanità. Tuttavia, come si diceva, la spiegazione canonica della Scrittura non mi pare completamente soddisfacente e mi piace pensare a scenari esplicativi diversi. Il male esiste non perché ci sia un tentatore esterno che sedusse e traviò l’innocenza originaria dell’uomo, o perché l’uomo volle ribellarsi a Dio non accettando le sue regole (non compare nessun desiderio di ribellione nel gesto dell’uomo di cibarsi di quei famosi frutti), ma semplicemente perché il male è insito nell’uomo. Fa parte della natura umana il desiderio di ampliare continuamente i propri limiti, di creare, di distruggere, di oltrepassare l’ignoto, di farsi in qualche modo Dio e di essere poi cosciente di tutto ciò. Questa violenza, questo egoismo avido, questo bisogno di onnipotenza lo pongono distante dal resto del creato, forse al di sopra del creato in termini di intelligenza, capacità creative e potere, ma anche definitivamente separato dall’armonia delle cose naturali, vista la distruzione che egli ha sempre portato consapevolmente (e questo fa la differenza) tra i propri simili e gli altri esseri viventi della terra. Questa discrasia, frutto della complessità dell’essere umano, è ciò che lo rende superiore ma è anche il suo tormento; nonostante la sua superiorità naturale, l’uomo e la sua esistenza risultano segnati dalla fatica e dal dolore. Perché, si chiede l’umanità? Ecco allora l’invenzione del mito della cacciata dall’Eden, la necessità di sapere che c’è stata un’epoca in cui quel tormento non c’era, un luogo cui sperare un giorno di tornare ricomponendo quell’armonia col creato ormai perduta.
Ma, come si diceva, nel racconto della Genesi la perdita dell’armonia riguarda non solo il rapporto col proprio Creatore, ma anche quello dell’uomo con sé stesso; egli si giudica e si vergogna, mentre prima no. L’uomo cioè si scinde interiormente autovalutandosi e, così facendo, perde quella serenità e spontaneità che prima c’erano nella relazione col divino (ma anche, potremmo dire in generale, con l’altro da sé). Il dialogo col serpente può essere pensato, da un punto di vista psicologico, come una rappresentazione del rapporto con quella parte di sé che desidera andare oltre, che non si accontenta di ciò che è stato generosamente concesso (la serenità, il potere sugli altri esseri, una compagna) ma che ambisce al raggiungimento di una perfezione o di un ideale non ancora posseduti. La rappresentazione, dunque, di un teatro interiore conflittuale che porterà alla tragedia finale; una deleteria trasformazione interiore della creatura umana, prima armonica e in pace con sé stessa, ora consapevole di sé ma divisa.
Infine, da un punto di vista più propriamente evolutivo, trovo il mito dell’Eden ancora più ricco di significati e di spunti. Il momento del soggiorno nel paradiso terrestre rappresenterebbe bene la condizione della psiche durante l’infanzia e la fanciullezza, quando è assente o solo parziale la consapevolezza di sé, quando il bambino è tendenzialmente capace di immergersi nelle attività quotidiane senza eccessiva preoccupazione legata al futuro o al passato. La capacità di astrazione deve ancora fare la sua comparsa, l’esperienza quotidiana non è regolata essenzialmente dal confronto con aspettative su cose a venire, o da ricordi di esperienze passate che egli comprende non torneranno più, ma dal rapporto con la realtà percettivamente presente. In condizioni normali, il bambino vive senza un eccessivo distacco dal proprio presente e da sé stesso come essere che vuole e sente; vive in una condizione di dipendenza dai genitori e di armonia con le regole e i valori da loro stabiliti, avendoli interiorizzati come propri, senza sottoporli al vaglio della critica. Il suo mondo è ordinato e comprensibile, tendenzialmente lineare. Egli non è sufficientemente capace di discernere da un punto di vista emotivo, tra ciò che viene da sé e ciò che viene dal suo ambiente.
È vero che i bambini sperimentano la vergogna e la colpa precocemente, ma non sono consapevoli di queste dinamiche interiori; essi, semplicemente, le esperiscono e le mettono in atto. Non si è ancora formata un’istanza riflessiva capace di prendere coscienza e di riflettere su sé stessi, sui propri stati d’animo e comportamenti e sulle implicazioni del proprio modo di essere rispetto al passato e al futuro. Tale istanza riflessiva, che rappresenta l’elemento necessario per raggiungere una reale autonomia psichica dall’ambiente, in condizioni normali comparirà progressivamente e si stabilizzerà solo con l’adolescenza e con l’avvento delle capacità di pensiero astratto-formale ad essa connesse, e sarà foriera di numerosi conflitti sia interiori che con l’ambiente, di più accentuati sentimenti di colpa o di vergogna per alcuni aspetti di sé che non riflettono le attese dell’ambiente o create dall’individuo stesso. L’adolescente capirà quanto sia necessario e inevitabile ma anche quanto sia doloroso separarsi dai propri genitori; si scoprirà essere diverso da loro, per certi versi inconciliabile. Non perché prima non lo fosse, ma perché prima non ne aveva piena coscienza.
La comparsa di questa capacità di autoriflessione, di questa scissione interiore tra sé e sé, unita alla capacità di pensare per ipotesi, di realizzare astrazioni, di immaginare il futuro (la propria morte ad esempio e quella dei propri cari), di riflettere sul passato come tempo ormai andato via definitivamente, lo renderà un essere umano più complesso ma anche più sofferente, più lacerato. Egli avrà perduto l’inconsapevole infantile armonia con sé stesso, col proprio ambiente (familiare, innanzitutto) e con l’esistenza in generale. Frequenti saranno, proprio in età adolescenziale e tardo adolescenziale, le fantasie ed i sogni di ricomposizione di quest’unità perduta, di questa fase di serenità inconsapevole in cui si poteva star nudi senza vergognarsi. Ecco perché potremmo dire che la storia di ogni essere umano, in senso ontogenetico, è una storia di crescente differenziazione psichica e relazionale che, da una situazione di armonia con l’ambiente e con la propria psiche, condurrà ad una di maggiore conflittualità e sofferenza. La storia della creazione narrata dalla Genesi descrive proprio un processo di differenziazione sempre maggiore nella mente dell’uomo, un improvviso tragico cambiamento di condizione che lo allontana da Dio e da una condizione di perfetta armonia iniziale. Un cambiamento che ben riflette e simboleggia quel travagliato processo ontogenetico di evoluzione psichica tipico dell’adolescenza che porterà all’età adulta e ad una maggiore consapevolezza di sé.
La cacciata dall’Eden da un punto di vista psicologico è un mito, cioè un’elaborazione cognitiva collettiva di un bisogno esistenziale atavico che accomuna l’intera umanità, quello di ricomporre un’integrità psicologica prima posseduta (nell’infanzia) e poi dolorosamente perduta. Quell’armonia esistenziale con sé stesso e il creato da cui l’essere umano adulto si sente, in misura maggiore o minore, profondamente escluso.
* Versione modificata di un contributo pubblicato su Haecceitasweb.
An illustrated scroll of John Milton's Paradise Lost (Credit: Terrance Lindall)